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Antonio Motta e le tracce della guerra:
intervista su Ruins

Antonio Motta e le tracce della guerra:
intervista su Ruins

L’arte ha il potere di raccontare storie, evocare emozioni e stimolare riflessioni profonde. Nel progetto Ruins, Antonio Motta esplora il tema della distruzione attraverso immagini frammentate, colori evocativi e materiali non convenzionali. Il suo lavoro parte da un’idea forte: la guerra non lascia segni solo nelle persone, ma anche nei luoghi, trasformandoli in corpi martoriati, testimoni silenziosi del conflitto.

In questa intervista, l’artista ci guida nel suo processo creativo, spiegando la scelta della plastica come supporto – fragile, lacerabile e meno raffinato della carta – e il ruolo simbolico del colore nel suo lavoro. Parla inoltre delle influenze artistiche che hanno contribuito alla nascita di Ruins, rivelando il rapporto tra tecnica, materia e memoria.

Un dialogo intenso che ci porta a riflettere su come l’arte possa dare forma alla distruzione e trasformarla in espressione.

Processo Creativo e Ispirazione

  • Qual è stata l’ispirazione principale dietro Ruins?

Se devo essere sincero, la guerra in Palestina. Nonostante io abbia una mia posizione, nei miei lavori non c’è un vero messaggio politico. L’idea centrale è questa: la guerra lascia tracce, non solo nelle persone, ma soprattutto nei luoghi in cui avviene. La distruzione si manifesta attraverso le macerie, il corpo morto delle città martoriate dal conflitto. Ed è proprio questo che voglio analizzare.

  • Come hai sviluppato l’idea di lavorare su entrambi i supporti, plastica e carta?

Cercavo un supporto meno tradizionale ma che non fosse troppo ingombrante. La plastica usata dagli imbianchini si è rivelata perfetta: è fragile, facilmente lacerabile e meno raffinata della carta. Questo la rende particolarmente adatta a rappresentare il soggetto che tratto.

  • Il titolo Ruins suggerisce un senso di decadenza o memoria. C’è un significato preciso dietro questa scelta?

Sì, senza dubbio. Ruins richiama direttamente le macerie lacerate dai missili.

La realizzazione di Ruins

Tecnica e Materiali

  • Quali differenze hai riscontrato nel lavorare su plastica rispetto alla carta?

Lavorare su plastica permette di avere una visione più chiara della matrice durante la stampa. Tuttavia, è un materiale difficile da gestire perché l’inchiostro tende ad attaccarsi rapidamente alla superficie. Inoltre, la resa su un supporto così leggero non è ottimale: è quasi impossibile riprodurre fedelmente qualsiasi immagine. Ma è proprio questa imperfezione a renderla unica. I buchi e gli squarci che si creano nell’immagine pongono una distanza tra essa e l’osservatore, come un velo che si interpone tra realtà e rappresentazione.

  • In Ruins predominano campiture calde accostate al grigio-nero, mentre in Ruins Final il colore dominante è l’azzurro. Qual è il ruolo del colore in questo progetto?

I colori caldi evocano energia e movimento, perciò il loro legame con il fuoco, le esplosioni e le folle in fuga è immediato. Ruins Final, invece, trasmette una serenità apparente: è il momento successivo al caos della guerra. Non è una vera pace, ma piuttosto la sensazione di qualcosa che si dirada, come la nebbia dopo la tempesta. Il blu è il colore più calmo che esista, ed era perfetto per segnare questo stacco tra il conflitto e ciò che viene dopo.

  • L’elemento materico ha un ruolo importante nel progetto? Hai sperimentato con trasparenze o sovrapposizioni?

L’elemento materico è sempre presente nel mio lavoro. Credo che, nel campo della grafica, sia essenziale parlare di materia. Ultimamente ho sperimentato diversi tipi di trasferimento, utilizzando corde, acetati e reti. In Ruins, la plastica non è solo un supporto ma anche un mezzo di trasformazione dell’immagine. Non si limita a riceverla, ma la trasferisce, creando un effetto di dissolvenza e stratificazione. Questo rende l’opera più complessa da osservare, perché impone all’occhio di andare oltre la superficie e percepire una profondità nascosta.

Riferimenti e Influenze

  • Le campiture ricordano vagamente Rothko: è stata un’influenza diretta o un’assonanza emersa spontaneamente?

No, non ho preso ispirazione da Rothko, è una coincidenza. Tuttavia, credo che pensieri simili possano portare a risultati simili. La casualità è un elemento che accetto volentieri nel mio processo creativo.

  • Ci sono artisti o movimenti che hanno influenzato questo lavoro?

L’ispirazione, per come la intendo io, gioca spesso brutti scherzi. Sicuramente ho preso spunto dagli elementi naturali di Francesco Poiana, mentre l’idea di lavorare sulla plastica mi è venuta grazie a Cecilia Giovanelli, una mia collega d’Accademia. Ha realizzato un organo stampato a gumprint che è una meraviglia.

  • Come si colloca Ruins rispetto ai tuoi lavori precedenti? È una continuità o una rottura?

Ogni mio lavoro si distanzia dal precedente, ma mantiene un legame con quello successivo. Ruins è entrambe le cose: continuità e rottura.

Il Progetto Ruins di Antonio Motta

ruins-I

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ruins-IV

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ruins-VI-b

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ruins-V

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ruins-V-a

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Ruins-XI

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ruins-XIII

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Ruins final B

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ruins final

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Con Ruins, Antonio Motta ci invita a riflettere sulle ferite della guerra, con un riferimento particolare al conflitto in Palestina. Le sue opere trasformano la distruzione in un racconto visivo potente, dove le macerie diventano testimoni silenziosi della violenza subita.

Tuttavia, in Ruins Final, l’azzurro sostituisce le tonalità calde del fuoco e della devastazione, suggerendo una calma apparente. Non è una pace assoluta, ma il momento in cui la polvere si posa e il conflitto lascia spazio a una nuova consapevolezza. Un invito a guardare oltre la distruzione, interrogandoci su ciò che resta e su come ricostruire dopo il caos.